Fernando Pessoa. Un baule pieno di gente, una sola moltitudine.
A
Lisbona, nel Monastero dei Jeronimos, c’è una stele infissa sul
terreno: qui, insieme a tre dei suoi eteronimi - Alberto Caeiro, Ricardo
Reis, Alvaro de Campos - dorme Fernando Pessoa insieme agli "altri
nomi", le persone fittizie cui egli diede vita perché potessero
rappresentare, in frammenti, la sua personalità complessa e inquieta, il
peso intollerabile del proprio io. "Ho messo in Caeiro tutta la mia
forza di personalizzazione drammatica, ho messo in Ricardo Reis tutta la
mia disciplina mentale, vestita della musica che le è propria, ho messo
in de Campos tutta l’emozione che non ho dato né a me né alla mia
vita", dirà infatti, confessando il proprio io diviso ma pregno di
immaginazione, dimora di sogni , di visioni e di finzione "vera".
Di
recente ripubblicato dal Corriere della Sera, il volume "Poesie"
contiene i versi di Fernando Pessoa ortonimo, "Messaggi", e quelli degli
eteronimi maggiori (Bernardo Soares, autore del Libro dell’Inquietudine
è considerato da critici e studiosi, tra cui Luciana Stegagno Picchio e
Antonio Tabucchi, un semi-eteronimo); fortemente evocativi, arcani e
metafisici ("Gli spigoli mi fissano. / Realmente sorridono le pareti
levigate"), sono " Messaggi", che attingono al mondo dell’infanzia, al
mito d’un mondo non perduto perché non avuto, alla solitudine d’un
bambino orfano di padre, che a soli sette anni inventò per sé un amico
immaginario a cui scrivere. Dal contrasto tra vita e sogno (..."vedere
le forme invisibili / della distanza imprecisa e, con sensibili /
movimenti della speranza e della volontà, / cercare sulla linea fredda
dell’orizzonte / l’albero, la spiaggia, il fiore, l’uccello, la fonte - /
i baci meritati della Verità".), nasce quel desiderio di assoluto e di
universo che lo rende estraneo al mondo e alla sua Lisbona, città nella
quale, ritornato adolescente dal Sudafrica in cui aveva vissuto con la
madre e il patrigno, apprenderà la tristezza "delle cose reali".
La
sua opera letteraria e la sua stessa vita partecipano a quel progetto
di "radicalizzazione" di un’esistenza "estranea", intravista e "sentita"
con dolorosa alienazione ma fatta piena della multipla alterità
conclamatasi nel "giorno trionfale" in cui nascono gli eteronimi. E’
l’otto marzo del 1914, Pessoa è preso da una furia improvvisa, sente
molte voci dentro sé, qualcosa che ha a che fare con l’interiorità e i
fenomeni mistici. Empaticamente scrive di getto, si lascia guidare
dall’atto creativo che queste entità gli comandano. L’abitatore di altri
da sé, di un "baule pieno di gente"rinuncia ad abitare la propria vita
mentre gli eteronimi sviluppano la propria, parallelamente alla sua, e
tra di loro: Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro (il maestro
di tutti gli eteronimi, il cui numero aumenterà negli anni), sono le
"persone" dietro le quali si scherma Pessoa (cognome che in italiano si
traduce, appunto, in "persona").
Se essere persona indivisibile è
il cruccio del poeta, vivere in altre individualità in qualche modo lo
pone al riparo dei rischi della vita. Del resto, la finzione necessaria
riguarda anche il letterato: Il panico dell’esistenza è così distribuito
in ciascun eteronimo, ognuno ha una storia personale, una professione,
un proprio stile letterario, è senza famiglia, senza un amore, come la
matrice che li ha concepiti: "Mi sono moltiplicato per non sentirmi, per
sentirmi ho dovuto sentire tutto, sono straripato, non ho fatto altro
che traboccarmi..."; " Non so chi sono, che anima ho. Quando parlo con
sincerità non so con quale sincerità parlo. Sono variamente altro da un
io che non so se esiste (o se è quello degli altri)"; "Mi sento
multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che
distorcono in riflessi falsi un’unica anteriore realtà che non è in
nessuno ed è in tutti"(da: Una sola moltitudine). Confessa che l’origine
mentale degli eteronimi "sta nella mia tendenza organica e costante
alla spersonalizzazione e alla simulazione" con cui esprime il
sentimento panico dell’io: "Piove. E’ silenzio / poiché la stessa
pioggia fa rumore, ma con tranquillità. / Piove. Il cielo dorme. Quando
l’anima è vedova / di quel che non sa (....) // Piove. Non viene voglia
di nulla. // Non alita vento, non v’è cielo ch’io senta. / Piove lontano
e indistintamente, / come una cosa certa che a noi menta, / (...) /
Piove. Nulla in me sente....".
Oppure: " Ma sempre estraneo,
sempre penetrando / la più riposta essenza della mia vita, / l’ombra
dentro di me vado cercando", a ripetere un antico sortilegio,
un’alchimia di cui si vorrebbe conoscere la formula : " Mi torni la mia
ultima magia / di me nel simulacro in corpo vivo! / Muoia chi sono; chi
mi feci ed ero, /anonima presenza che si bacia, / carne d’astratto amore
mio recluso, / sia la morte di me dove rivivo...".(da: L’ultimo
sortilegio). Non meno complessi i "Poemi completi" di Alberto Caeiro da
Silva, poeta panteista. Ne "Il guardiano di greggi"( "Il gregge è i miei
pensieri ", dice il secondo verso), Pessoa è in trasparenza ma,
ossimoricamente, in trasparenza evidente, quando Caeiro scrive: "Andate,
andate via da me! / Passa l’albero e rimane disperso per la Natura. /
Appassisce il fiore e la sua polvere dura sempre. / Scorre il fiume e
sfocia nel mare e la sua acqua è / sempre quella che è stata sua. //
Passo e resto, come l’Universo". Ancora l’ossimoro della "finzione
vera", qui dato per "verità falsa"che solo l’atto di alzarsi, elevarsi,
può rivelare:" Quando si è alzato dal declivio e dalla verità falsa, ha /
visto tutto: / le grandi valli piene degli stessi verdi di sempre, / le
grandi montagne lontano, / più reali di qualunque / sentimento, / la
realtà tutta, con il cielo e l’aria".
Un ecclesiaste bucolico del
primo Novecento: così Ricardo Reis nelle sue "Odi"; un vento mistico ne
pervade i versi, vento che appartiene alla vanità del mondo, al suono
del tempo. Di impianto classico, a partire dal titolo, i versi di Reis
echeggiano il poeta Orazio: "...la natura di questo giorno calmo / poco
rapisce al mio senso / del tempo che dilegua", oppure " E il nome
inutile / che il tuo corpo morto / ha usato / vivo, sulla terra, come
un’anima, / non si rammenta. L’ode un sorriso / anonimo registra".
E
ancora: "Sugli alti rami d’alberi frondosi / il vento fa un rumore
freddo e alto / In questa selva perso, in questo suono, / medito
solitario. // Così nel mondo, in cima a quel che sento, / un vento fa la
vita, e lascia, e prende, / e nulla ha senso - neppure l’anima /con cui
da solo penso". Ma con Alvaro de Campos, alto, elegante ingegnere
metafisico, torna prepotente il motivo della nostalgia dell’infanzia,
non un ritorno della memoria a un tempo più o meno fittizio, piuttosto
alla immemorabilità di questo, poiché l’infanzia "è anteriore allo
stadio in cui si organizzano i ricordi razionali " (da: A. Tabucchi. Un
baule pieno di gente). Le "Poesie" di de Campos sono colme di stanchezza
e nostalgia. Con le parole di lui Pessoa scrive, nel 1926, "Lisbona
rivisitata", poemetto del quale si riportano alcuni versi: " Nulla mi
lega a nulla. / (...) / Anelo con un’angoscia di fame di carne / quel
che non so che sia - (...) / Mi sono svegliato alla stessa vita a cui
m’ero / addormentato. / Perfino i miei eserciti sognati hanno patito
sconfitta. / Perfino i miei sogni si sono sentiti falsi all’essere
sognati". De Campos esprime il rovello dell’intelligenza speculativa, il
dubbio se abbandonarla per giungere alla grande pace, al silenzio
dell’atarassia. Il sonno, infine, la breve non esistenza "Alla fine di
ciò che tutto sembra essere... / questo piccolo universo provinciale tra
gli astri, / questo paesino dello spazio, / (...) / persino dello /
spazio totale".
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